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Sei lettere a Cettina
Nel marzo del 1916 un giovane siciliano viene arruolato nella Brigata Sele e inviato al fronte. Sul finire di settembre troverà la morte nelle prealpi vicentine. I suoi sei mesi di guerra sono scanditi dalle lettere che manda alla giovane alla quale si è promesso sposo.
Drammatico.
Lunghezza: 29.253 battute. Tempo di lettura: 24′.
Stato: pubblicato in “Quaderni Amerini”, n. 12, 2023, pp. 135-151. I diritti sono disponibili.
Riconoscimenti: finalista (quarto ex aequo) al Premio Amerino 2023; terzo classificato (in una versione ridotta, intitolata Vizzini-Arsiero sola andata) al Premio letterario Fabrizio De Andrè.
Deposito legale: Patamu Registry.
Il 9 marzo 1916 Paolo Carelli, di anni ventitré, si recò a piedi alla stazione a valle del paese di Vizzini. La ferrovia passava lì fin dal 1892 ma Paolo prendeva il treno per la prima volta. Anche la terza classe era cosa da signori e lui signore non era. Prima di salire sul vagone salutò sua madre e quello che per lui era come un padre. Un fischio prolungato annunciò la partenza, uno sbuffo di fumo nero anticipò il movimento delle ruote, la locomotiva si rimise in marcia e Paolo iniziò il suo viaggio dalla Sicilia per Salerno, tappa di quello lungo verso il fronte.
Prima di quel giorno, Paolo si era già allontanato dal paese per le commissioni che gli ordinava il notaio Bonaccorso. Grammichele, Caltagirone, Francofonte, Lentini… Una volta era stato anche a Catania, sessanta chilometri per consegnare un plico e altri sessanta per portare la risposta. Quando ci era riuscito, lungo la strada aveva approfittato della gentilezza di qualche contadino e della morbidezza del fieno ammucchiato nei carretti. Ora, le panche del treno erano dure e scomode ma giovinezza e novità del viaggio lo aiutarono a non farci troppo caso.
Superato lo stretto di Messina il sonno ebbe la meglio e Paolo dormì per qualche ora. Quando si risvegliò era ancora buio. Per proteggersi dal fresco della notte qualcuno aveva chiuso i finestrini. Paolo scrutò l’oscurità, cercando qualche luce di paese o quella delle stelle. L’aria nel vagone era diventata densa e odorosa di trinciato. Paolo non lo sapeva ma fumo e odore acre erano già un’anticipazione della guerra. Il tabacco aiutava a far passare il tempo dei soldati. Addirittura, nel luglio del 1915, mentre si battagliava sull’Isonzo, il principe Pietro Lanza di Scalea era stato chiamato a presiedere un apposito Comitato nazionale per i sigari ai soldati combattenti.
Guardando fuori si distraeva dal motivo del suo viaggio. A ricordarglielo, a tutte le fermate, pensarono altri giovani che come lui salivano e prendevano posto nel vagone. Pochi bagagli, molti silenzi e per tutti la stessa cartolina nelle tasche. Su quella di Paolo c’era scritto di aggregarsi come soldato semplice alla brigata Sele, del 219° reggimento di fanteria del Regio Esercito italiano.
Arrivato a Salerno, per trovare la caserma gli bastò seguire la corrente di coloro che, scesi prima di lui, già avevano chiesto e ottenuto indicazioni. Dopo qualche formalità sbrigata in fretta gli consegnarono una divisa, gli assegnarono una branda in camerata e lo avvertirono che già il giorno dopo sarebbero partiti per Treviso. Chiese al caporale se ci sarebbe stato il tempo per scrivere una lettera. Il caporale lo guardò, socchiudendo gli occhi con fare sospettoso. Perché, sapeva scrivere? Sì, signor caporale, leggere, scrivere e far di conto. Al fronte sono cose che non servono, ma fai come vuoi. Paolo non se lo fece ripetere due volte. Riuscì a procurarsi carta e penna e spedì la prima lettera a Cettina.
Il viaggio dei pensieri di Paolo si concluse a casa di Rosaria, nata Giarrusso, vedova Sammartino, madre di figlia unica Concetta detta Concettina, solo Cettina se c’era da far presto. Rosaria non sapeva leggere e Cettina era stata tolta da scuola a metà della seconda elementare. Non c’era che da rivolgersi al maestro Tavella. Una ricotta di quelle tenute in fresco nella grotta avrebbe compensato la lettura.
Alla scuola elementare, dopo che i bambini sciamarono fuori dall’aula, Rosaria si affacciò ma rimase sulla soglia dell’aula, aspettando che il maestro si accorgesse di lei e di Cettina. Quando ciò avvenne si avvicinarono alla cattedra. Tavella accettò il dono già immaginando il favore chiesto in cambio. Prese la lettera e si aggiustò gli occhiali. Paolo aveva viaggiato bene. Salerno era più grande di Vizzini ma praticamente non l’aveva vista. L’indomani sarebbero partiti per Treviso. Se avesse trovato un fotografo, appena possibile avrebbe spedito una sua fotografia in divisa.
Cettina ascoltò stringendo la mano della madre con una forza che Rosaria non le conosceva, poi chiese al maestro di leggere di nuovo. Dopo una terza lettura Tavella parlò a Rosaria. Disse che Cettina era intelligente e che lui poteva insegnarle nei pomeriggi liberi, ospiti della canonica nella chiesa di San Vito. Uno scambio di sguardi e l’accordo fu concluso.
A Treviso Paolo passò il mese di aprile a imparare quello che doveva: obbedire senza pensare molto, sparare e lanciare bombe a mano. Quando glielo chiesero, non esitò a forare con la baionetta dei sacchi avvolti alla meglio da una giubba con i colori austriaci. Anziché i nemici, quei goffi simulacri gli ricordavano gli spaventapasseri e le cornacchie che ci si posavano, nei campi coltivati di Vizzini. A certi suoi compagni, invece, l’immaginazione giocò dei brutti scherzi e il gesto di infilzare fu esitante. Il caporale minacciò, ordinò e perfino supplicò di fare meglio. Il sacco è immobile ma il nemico è armato e vivo più di voi! Con Paolo, gridare non servì. Sul Monte Lauro, accompagnando a caccia il notaio Bonaccorso, anche lui aveva scuoiato le lepri appena impallinate o quelle catturate dalle trappole e, subito dopo, uccise con un ben assestato colpo al collo.
Nella brigata Sele erano più di mille ma Paolo era fra i pochi che sapevano leggere, scrivere e usare l’italiano. Era stato uno scolaro diligente e aveva frequentato la scuola fino ai primi due anni di ginnasio. Essere figlio illegittimo del notaio Bonaccorso, a qualcosa era servito. Quando ci fu il guaio, il notaio già aveva moglie e cinque figlie femmine. Chiarì alla serva che il bambino non l’avrebbe mai riconosciuto, però promise che l’avrebbe fatto andare a scuola e che poi, all’età giusta, lo avrebbe preso come garzone dello studio. Erano condizioni generose e un’assicurazione che, vivo il notaio, Paolo aveva il pane garantito. La madre e suo marito ringraziarono accettando il patto e, da quel giorno, gli sguardi e i bisbigli dei paesani. La serva, si sussurrava alle orecchie più fidate, aveva fatto abbagnari u viscùottu al gallo Bonaccorso. Quello c’era caduto comu ‘na jaddina e ora avrebbe avuto un’altra bocca da sfamare. I commenti, però, soltanto nel chiuso delle case. All’aperto nessuno avrebbe mai detto una parola: il notaio era il notaio, mo cucino mi disse ca sta pi diventare senatore du regnu.